La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato da Michele Pecora, confermando la misura cautelare degli arresti domiciliari. L’indagato è coinvolto in un’inchiesta riguardante una tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso ai danni dell’amministrazione comunale di Capaccio Paestum.
Il contesto delle intimidazioni all’ente locale
La vicenda giudiziaria ruota attorno a presunte pressioni esercitate per costringere il Comune ad adottare provvedimenti favorevoli allo stabilimento balneare “Lido Kennedy”. Secondo la ricostruzione dei giudici, l’obiettivo era ottenere un risparmio economico per i privati, addebitando i costi dei lavori di demolizione e messa in sicurezza direttamente sulle casse dell’ente pubblico.
La difesa di Pecora aveva contestato la qualificazione giuridica del reato, sostenendo che si trattasse al massimo di violenza privata o di un “reato impossibile”, data l’assenza di un profitto ingiusto e la natura irrevocabile degli atti amministrativi per l’abbattimento della struttura.
Tuttavia, gli ermellini hanno ribadito che la presunta condotta intimidatoria finalizzata a procurare un risparmio di spesa configura pienamente il delitto di estorsione, in quanto idonea a produrre un danno economico per la pubblica amministrazione.
Il ruolo del ricorrente
Uno dei punti cardine della decisione riguarda la partecipazione concorsuale di Michele Pecora. La Cassazione ha ritenuto adeguata la motivazione del Tribunale del Riesame di Salerno, che aveva evidenziato come la presenza silenziosa di Pecora accanto ad altri soggetti, nel momento in cui venivano prospettati atti violenti, avesse potuto rappresentare un “concreto rafforzamento” dell’azione criminale.
Dalle intercettazioni sarebbe emersa inoltre la consapevolezza dell’indagato circa la contiguità di alcuni soggetti coinvolti al clan Marandino. Per i giudici ciò giustifica il mantenimento della misura cautelare.
La decisione finale della suprema Corte
I motivi di ricorso sono stati giudicati in parte generici e in parte volti a sollecitare una rivalutazione dei fatti non consentita in sede di legittimità. Di conseguenza, la Seconda Sezione Penale ha non solo confermato il provvedimento restrittivo.